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The Aviator |
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Sottotitoli:
Italiano per non udenti, Inglese
Formato:
2.35:1, Anamorfico 16:9
Regia:
Martin Scorsese
Lingue:
Italiano Dolby Digital 5.1, Italiano DTS, Inglese Dolby Digital 5.1
Cast:
Leonardo DiCaprio, Cate Blanchett, Kate Beckinsale, John C. Reilly, Alec Baldwin, Alan Alda, Jude Law, Gwen Stephani, Ian Holm, Matt Ross
Durata:
170'
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La Trama
Il ventennio da protagonista, fra grandi
imprese e mirabolanti cadute, del magnate
americano Howard Hughes (L. DiCaprio), giunto
giovanissimo a Hollywood come regista e
produttore grazie ai soldi ereditati dalla
fortuna del padre, inventore di una rivoluzionaria
trivella per l’estrazione del petrolio:
dal 1926, - anno dell’inizio della
lavorazione alla pellicola “Gli angeli
dell’inferno”, prima delle sue
due fatiche da filmmaker - che sancì
l’inizio del sodalizio lavorativo
con i fedelissimi Noah Dietrich (J. Reilly)
– contabile -, Glenn Odekirk (M. Ross)
– ingegnere – e il Professor
Fitz (I. Holm) – meteorologo –
fino al 1947, con il successo al processo
contro lo stesso Hughes intentato dalla
Commissione per l’aviazione degli
Stati Uniti e il collaudo del famigerato
Hercules, velivolo titanico cui il milionario
dedicò gran parte delle sue finanze
e progetti.
A cavallo delle due date, confronti, relazioni
pubbliche e private, grandi imprese costellarono
la vita al massimo di Hughes: relazioni
più o meno effimere con le dive più
ambite del momento, da Jean Harlowe (G.
Stephani) fino a Katherine Hepburn (C. Blanchett)
e Ava Gardner (K. Beckinsale), frequentazioni
di stelle come Erroll Flynn (J. Law), l’acquisizione
della compagnia aerea civile TWA giunta
dopo aver centrato il record di velocità
in volo nel 1935 e aver doppiato il precedente
in un giro intorno al mondo da New York
a New York nel 1937, la battaglia per “l’allargamento”
dei cieli contro la Pan Am di Juan Trippe
(A. Baldwin) e le pressioni del senatore
Brewster (A. Alda), incidenti quasi mortali
e continue innovazioni tecniche alla base
dell’aviazione civile e militare moderna.
E dietro le luci di macchine fotografiche
e riflettori, l’immagine di un bambino
perduto, di un uomo solo e inaccessibile,
incattivito e schivo, dalle pulsioni fobiche
e maniacali legate ad un atavico terrore
per i germi.
Sogni ed incubi di un uomo la cui mente
volò sempre un passo oltre quello
che il corpo – e il cuore –
potevano sopportare, come un aeroplano lanciato
a una velocità tale da far saltare
il contagiri anche quando il carburante
è finito. Una biopic che parla delle imprese di un
aviatore, ma soprattutto, di una persona
che credette ai propri sogni anche quando
parevano troppo grandi perfino per le sue
pur immense risorse: un “Citizen Kane”
realmente esistito, per il “Quarto
potere” personale di Martin Scorsese.
Un film per il cinema, ma oltre ogni cosa, un film sul
cinema.
Commento
Martin Scorsese è uno dei grandi perdenti del cinema.
Nonostante i riconoscimenti in tutto il mondo, i successi
di pubblico e critica, l’investitura a “miglior
regista vivente” che spesso ricorre in ogni articolo
che riporti la sua filmografia, in patria, e agli occhi
dell’elite, non è considerato quanto, probabilmente,
la sua storia e le sue opere vorrebbero. Per nostra fortuna.
Probabilmente, se il successo fosse arriso maggiormente
al regista italo-americano, infatti, la sua passione per
i personaggi, come lui, “eterni secondi”,
non si sarebbe sviluppata in modo così dirompente:
Charlie in Mean Streets (Mean Streets, Martin Scorsese,
1973), Travis in Taxi Driver (Taxi Driver, Martin Scorsese,
1976), Frank in Al di là della vita (Bringin out
the dead, Martin Scorsese, 1999), Jake LaMotta in Toro
Scatenato (Raging Bull, Martin Scorsese, 1980), Eddie
Felson ne Il colore dei soldi (The colour of the money,
Martin Scorsese, 1986), così come Amsterdam in
Gangs of New York (Gangs of New York, Martin Scorsese,
2002), sono tutti grandi perdenti, più o meno meritevoli
del loro Destino, meschini o nobili, principalmente soli,
anche quando amati. A loro ora si aggiunge il magnate
americano Howard Hughes, primo vero simbolo della filosofia
tutta a stelle e strisce del “larger than life”.
Personaggio controverso, giovane miliardario lanciatosi
prima in imprese produttive allora quasi impensabili per
Hollywood, per poi dedicarsi principalmente alla sua vera,
grande, passione: l’aviazione, prima praticata e
poi offerta alla patria e al grande pubblico. Da molti
considerato – sicuramente, in parte, a ragione –
un disturbato megalomane e un sostenitore della destra
storica statunitense nei primi anni del maccartismo, da
altri idolatrato come un modello di determinazione e forza
di volontà.
Un uomo in parte sicuramente meschino, eppure alla base
di molte delle innovazioni che oggi ci permettono di volare,
guardare la televisione in diretta mondiale, essere trasportati
attraverso i corridoi di un ospedale con un letto mobile.
I detrattori diranno che tutte le invenzioni che Hughes
stimolò o sviluppò in prima persona sarebbero
state, prima o poi, introdotte da altri: ma, come recita,
a buon dire, questa volta, la locandina italiana, “alcuni
uomini sognano il futuro, lui lo ha costruito”.
Ci vuole coraggio anche per essere “cattivi”,
così come – e Welles lo dimostrò citando
Hughes nel suo “Verità e menzogne”
(F for Fake, Orson Welles, 1973) – per essere perdenti.
E il multimiliardario, a capo del suo impero, rinchiuso
in una suite d’hotel a Las Vegas dai vetri oscurati,
solo con la sua malattia, certamente lo è stato.
Il cuore e l’anima dell’opera più recente
di Scorsese, però, non sta nella vita e nelle imprese
di Hughes, o perlomeno non direttamente: il grande merito
di questo splendido film, infatti, non sta nella tecnica
sopraffina, o nella materia di base scelta per il racconto,
quanto nella valenza assunta dal tutto proprio grazie
all’apporto fondamentale del regista, che trasforma
il suo “antieroe” in una versione alternativa
di se stesso e del cineasta in generale, così come
Welles aveva raccontato nel suo fulminante esordio Quarto
Potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1946). Il magnate
del petrolio, del cinema e dell’aviazione, esploratore
e pioniere, psicotico e coraggioso – perlomeno negli
affari -, diviene, negli eccessi della sua malattia, una
sorta di sciamano in bilico tra passato e futuro, i ricordi
dell’infanzia protetta dalla madre e le visioni
del prossimo isolamento, kleenex alla mano in difesa dei
batteri, simbolo della grandezza e dei sogni che solo
il cinema può regalare, e sintomo della meraviglia
che il bambino perde lungo le strade della vita, e che
probabilmente è conservata grazie alle imprese
possibili solo – o quasi – sul grande schermo.
Un inno alla meraviglia oltre la macchina da presa, quello
stupore che fu la “rosebud” di Kane e, in
questo caso, è il “futuro” di Howard
Hughes.
L’associazione con il volo, i Brewster e i Trippe
che tanto paiono avere in comune con gli stessi produttori
e “grandi giudici” (magari dell’Academy),
il processo – ricordiamo che Scorsese fu indagato,
dopo aver realizzato Taxi Driver, dall’FBI come
una sorta di sobillatore di masse – e la realizzazione
puramente simbolica dell’opera cui Hughes ha dedicato
più fondi ed energie paiono essere perfettamente
in sintonia con il viaggio del regista nel complesso mondo
della “fabbrica dei sogni” nata poco più
di un secolo fa – quasi in contemporanea con i primi
voli, pare una combinazione scelta dal Destino –
e già alla ribalta come le più “vecchie”delle
sue sorelle storiche.
Nel suo momento peggiore, quando, con l’aereo precipitato
in fiamme, Howard Hughes viene soccorso tempestivamente
– e forse salvato -, pronuncia una frase fondamentale,
prima di cadere privo di sensi schiacciato da una ribalta
fatta di luci, flash e macchine da presa: “Sono
Howard Hughes, l’aviatore.” Altro non poteva
essere, in quello che credeva fosse il suo punto di morte.
Anche Scorsese, a suo modo, è un aviatore. E raramente,
in tutta onestà, ci aveva portati così in
alto. Speriamo con tutto il cuore che il viaggio continui
a questa quota.
Si sa che oltre le nuvole – Hughes insegna –
si acquista velocità evitando ogni perturbazione. |
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