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Sonatine |
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Sottotitoli:
Italiano per non udenti
Formato:
1.85:1, 16/9
Regia:
Takeshi Kitano
Lingue:
Italiano e Giapponese 2.0
Cast:
"Beat" Takeshi, Aya Kokumai, Tetsu Watanabe, Masanobu Katsumura
Durata:
94'
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La Trama
Murakawa (“Beat” Takeshi), cinico e freddo
oyabun yakuza di successo, stanco della vita da gangster,
progetta di ritirarsi dal giro, ignaro del fatto che uno
dei boss di Tokio, attirato dai cospicui introiti ricavati
dalla sua stessa zona di competenza, sta progettando un
complesso piano che prevede l’acquisizione dei suoi
territori e l’eliminazione del suo clan. Con la
scusa di una guerra fra bande scoppiata sull’isola
di Okinawa, infatti, Murakawa e i suoi uomini vengono
inviati sul posto con il compito di trovare un accordo
che risolva la tensione fra le gang rivali.
Comprese la stranezza della situazione sull’isola
e persi alcuni uomini in un agguato sospetto, Murakawa
e i suoi si rifugiano in riva al mare, dove, in attesa
di comprendere le reali intenzioni dei boss di Tokio,
passano il tempo tornando bambini e giocando sorridenti
in bilico fra la vita e la morte, simbolismo ed iperrealismo.
Quando un sicario ucciderà uno dei suoi compagni
più fedeli (S. Terajima) a Murakawa non resterà
che tornare a combattere conscio dell’imminenza
della fine, preparandosi ad essa grazie alla vicinanza
dei fedeli Uechi (T. Watanabe) e Ryoji (M. Katsumura)
e all’amore della prostituta Miyuki (A. Kokumai)
che lui stesso aveva salvato in una notte di luna.
Prima che la morte reclami il suo tributo, per Murakawa
ci sarà tempo per un crescendo di vendetta, passione
e sangue, per smettere di usare una pistola, e, di conseguenza,
di avere paura. Commento “Mi
piacciono i duri, lo sai? Una persona in grado di uccidere
un'altra avrà sempre il coraggio di uccidere anche
se stessa.” “Io non sono un duro, perché
porto la pistola. Se fossi davvero come dici, andrei in
giro senza.” “E perché la porti,
allora?” “Perché ho paura.”
“Anche della morte?” “Quando una
persona ha paura, finisce per desiderare la morte.”
Questo, parola più parola meno, il cuore dell’ennesimo,
altissimo risultato del grande Takeshi Kitano, showman,
attore, scrittore, cabarettista e, a suo dire, filmmaker
nel tempo libero.
Giunge finalmente alla sua tanto sospirata edizione italiana
la pellicola che, con “Hana Bi” (Hana Bi,
Takeshi Kitano, Giappone, 1997, 103’), più
rappresenta il Kitano iperrealista, che parte dal noir
più violento per giungere alla poesia, mescolando
abilmente, ancora una volta, “civiltà”,
natura, danza, teatro tradizionale, oriente e occidente.
Ricalcando la struttura di un opera in musica, alterna
tempi e approcci completamente diversi per ogni “atto”
senza per questo confondere lo spettatore, prendendolo
anzi per mano in una danza solo all’apparenza meccanica,
in realtà fondata su un rigore che, dalle nostre
parti, si è visto solo con Bresson, dipinto dalla
sensibilità e dall’ironia tipicamente giapponese
che da sempre contraddistingue il cineasta di Tokio che,
al contrario dei suoi colleghi d’oltreoceano portatori
della bandiera del noir moderno – uno su tutti Quentin
Tarantino – non si abbandona all’autocompiacimento,
ma all’autoironia, dote che pare essere direttamente
proporzionale, soprattutto in questo caso, alla maestria
dietro la macchina da presa.
Molti sarebbero i punti da sviluppare partendo da quest’opera,
dalla potenza della narrazione di genere, ancora una volta
estremamente fedele alla “vita” – i
film di Kitano sono gli unici, in questo momento, forse,
con quelli di Michael Mann, dove i gangster sparano, prima
di parlare, e, anzi, spesso proprio non parlano –
fino all’uso delle simbologie e della natura, i
silenzi e le acutissime battute, il ritorno all’infanzia
che riporta perfino individui spietati come Murakawa a
un innocenza che pareva perduta, all’amore, fino
al sacrificio in nome dell’onore o, forse, come
detto in apertura, della liberazione dalla paura.
Per la prima volta, infatti, il tema del complesso rapporto
fra l’uomo e le armi pare essere affrontato ad un
livello psicologico che richiama a tratti la simbiosi
– emblematiche le scene della roulette russa e della
battaglia a suon di fuochi d’artificio – e
che ha i suoi momenti più alti nel confronto fra
Murakawa e la prostituta, salvata proprio dalla pistola
del gangster e, quasi in conseguenza di essa, innamorata
dello stesso. Dalla paura all’amore, dunque, con
Murakawa che, in assoluta tranquillità, rivela
di aver ucciso la sua prima persona al liceo, suo padre
in particolare, “perché gli impediva di scopare”.
Tutto pare legato, quasi i sentimenti fossero la trappola
in cui cadiamo quando siamo armati di paura. E in trappola
cadono tutti, grazie a Murakawa, paradossalmente finito
quasi consapevolmente in una ancora più grande
che, inevitabilmente, porterà alla morte lui e
i suoi uomini. Destino o semplice dramma a tinte fosche?
Forse entrambe le cose, forse solo un gioco di quelli
cui Kitano ci ha abituati, che non si preoccupa di spiegarci,
ma ci induce a capire senza alcuna demagogia, quasi come
la progressiva consapevolezza del suo istrionico senso
dell’umorismo da parte degli uomini disposti, per
Murakawa, a dare la vita senza chiedere alcuna spiegazione.
Murakawa sa, in qualche modo, come della trappola che
li attende, e pare essere l’unico in grado di guidare
i suoi “fratelli” di clan alla morte come
un mistico, attraverso un percorso che li riporti alla
natura, quella esteriore – la doccia sotto la pioggia,
i fiori lasciati “volare” dal sicario –
e quella interiore – le camicie, le buche, la paura
correlata alle armi.
E di nuovo torniamo alle buche: le persone che Murakawa
pare amare di più – a suo modo – finiscono
tutte nelle trappole scavate dal gangster, aprendo sul
suo viso un sorriso di innocenza quasi sconosciuta al
loro mondo. E’ un gioco, pare suggerire Kitano,
un compromesso per raggiungere la comprensione di un sentimento
ancora più alto, che il capo clan raccoglie e porta
con sé fino alla fine, al di là della morte,
e proprio nella morte trova il suo significato più
profondo, la parola fine non solo alla pellicola ma, per
intenderla come lo stesso Murakawa, alla paura.
Niente più pistole, alla fine. E anche se la ragazza
avrà voluto provare a sparare, egli sa che, una
volta caduta nella buca, non potrà più muoversi
in direzione della paura. Il sipario cala, non c’è
più alcun bisogno di lasciarsi intimorire. L’arma
più efficace Kitano pare averla nel cuore, quando
colpisce la sua platea con piccole gemme come questa.
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