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Old boy |
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Sottotitoli:
Italiano per non udenti
Formato:
2.35:1, 16/9
Regia:
Park Chan Wook
Lingue:
Italiano 5.1 Dolby Digital e DTS, Coreano 5.1 Dolby Digital
Cast:
Choi Min-Sik, Yoo Ji-Tae, Gang Hye-Jung, Chi Dae-Han
Durata:
119'
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La Trama
Una sera di pioggia del 1988 Dae-Su (Choi Min-Sik) scompare
misteriosamente mentre, dopo una sbronza, un amico lo
sta riconducendo a casa dove lo aspettano moglie e figlia
per festeggiare il compleanno di quest’ultima. Poco
tempo dopo, la moglie di Dae-Su viene trovata morta, e
dall’appartamento dove viveva con il marito è
trafugato l’album di famiglia. Dell’omicidio
viene incolpato lo stesso Dae-Su. In realtà, l’uomo
non è colpevole, né tantomeno fuggito alle
autorità, ma vive prigioniero in una stanza con
la sola compagnia di un televisore, in seguito all’ordine
impartito da un misterioso mandante responsabile di ogni
avvenimento e in cerca di vendetta rispetto all’uomo.
Per quindici anni, chiuso nella stanza, il prigioniero
si chiederà chi e perché lo abbia voluto
privare di tutto in quel modo, meditando a sua volta la
vendetta: e un giorno, proprio a un passo dalla fuga meticolosamente
orchestrata, verrà rilasciato affinché possa
iniziare la ricerca del suo persecutore che, volutamente,
porta la giovane Mi-Do (Gang Hye-Jung) sulla strada dell’uomo
e fornisce allo stesso le tracce che possano condurlo
fino a lui.
Woo-Jin (Yoo Ji-Tae), questo il suo nome, grazie a fondi
quasi illimitati e una dedizione maniacale, ha infatti
pianificato ogni passo di quello che sarà l’ultimo
confronto fra lui e Dae-Su, la realizzazione assoluta
del suo piano di vendetta di fronte alla volontà
dell’uomo che ha tenuto prigioniero per così
tanto tempo.
Chi è Woo-Jin? Cosa lo lega a Dae-Su? E qual è
il peccato di Dae-Su, tanto grave da muovere Woo-Jin ad
una così crudele e sistematica persecuzione? Quale
vendetta, alfine, si compierà? E chi, fra i due
nemici, merita più dell’altro una rivalsa,
la vita, l’amore, la morte?
Forse non si troverà risposta, almeno nella memoria,
e l’unica scelta sarà ricominciare da capo…
Commento
“Per quanto sia il peggiore degli animali, non merito
forse anch’io, di vivere?”
Come un monito, in un gioco a incastro di ricordi, deja-vù,
vendette e delitti, risuona questa frase dalle molteplici
sfaccettature nella sorprendente, agghiacciante e splendida
pellicola della “rivelazione” Park Chan Wook:
da sempre dedito, attraverso i suoi lavori, a sviscerare
– in tutti i sensi – il significato e le motivazioni
celate oltre la vendetta, il regista coreano s’impone
di diritto, con “Oldboy”, fra i cineasti più
profondi e promettenti attualmente in circolazione nel
panorama mondiale. Quanto, nel corso della nostra vita,
azioni che consideriamo futili e senza importanza influiscono
nelle vicende umane delle persone a noi più vicine?
E quanto, al contrario, in tutte quelle che conosciamo
solo per caso, alla lontana? E’ proprio vero che
l’apparentemente più futile colpa divenga
il peccato più grave che un uomo possa commettere
nella sua vita? E quanti altri peccati, quante colpe,
o azioni basse e malvagie siamo in grado di perpetrare
in nome della vendetta? Di nuovo, dopo il precedente “Mr.
Vendetta” (Symphathy for Mr. Vengeance, Corea del
Sud, 2002), il riscatto a una colpa ne genera di nuove,
a loro volta in attesa di future e più tremende
ripercussioni: come nelle antiche tragedie greche, dove
“l’hybris” - la colpa di cui uomini
o donne si macchiavano agli occhi degli Dei – poteva
continuare a perseguitare addirittura i discendenti dei
peccatori originali o, in un ottica a livello religioso
più vicino a noi, la punizione divina inflitta
ad Adamo ed Eva a seguito del peccato originale, la vendetta,
una volta compiuta, genera a sua volta il rancore necessario
a muovere uomini e donne a ulteriori vendette, tendenzialmente
più efferate e profonde di quella per la quale
la vendetta stessa è stata pensata. Così
il confronto di due “mostri”, Dae-Su e Woo-Jin,
divenuti tali una volta scelta la strada della vendetta,
non può che trovare stimoli sempre più profondi,
e provocare ferite angosciose e mai completamente rimarginabili
l’uno verso l’altro, consapevoli, al contempo,
entrambi delle proprie colpe. Non è dunque la ricerca
di salvezza, a muovere i protagonisti della pellicola,
quanto la sete di vendetta, e ancor più a fondo,
lo scoprire quale possa essere stata la scintilla capace
di far scaturire, nel cuore del nemico, il desiderio stesso.
Park Chan Wook lascia ben poche speranze, agli occhi dello
spettatore, filtrate attraverso l’innocenza rubata
alla dolce Mi-Do, sfruttata da entrambi gli antagonisti
– pur se in modo e con finalità differenti
– ma in grado, a suo modo, di superarne le vicende
per ricominciarne una nuova – e speriamo davvero
più felice – nella purificante visione della
neve che cade sul suo futuro.
E ancora, pur di fronte a una possibile nuova via, il
regista pare rammentarci quanto essa possa essere definitivamente
possibile, e se basti davvero rimuovere un ricordo, o
tentare una fuga – dal passato, dai peccati e da
se stessi – per poter sopravvivere alla vendetta,
senza risparmiare sferzate ironiche e drammatiche riflessioni,
amplificando gli effetti e le critiche nate dalla mente
di Garon e Nobuaki, mangaka giapponesi autori del fumetto
cui è ispirata la pellicola, applicabili in più
di una situazione alla mentalità “vittimistica”
propria del paese del sol levante. Emblematico, in questo
senso, il passaggio dell’ammissione di colpa di
Dae-Su, agghiacciante quanto ogni singolo frame di una
sequenza da brividi che quasi sconsiglierei agli “occidentali
convinti”, certo non in grado di comprendere la
profondità e la potenza di una riflessione come
quella nata da questa pellicola, densa di risvolti etici
che superano ampiamente effetti speciali e scene d’azione,
cornice (splendida) di un film di target ben superiore
a quello paventato dalla campagna pubblicitaria attuata
con il suo lancio, attraverso il quale, e di nuovo colpevolmente
dopo gli scempi compiuti con le locandine di “Hero”
(Hero, Zhang Yimou, Cina, 2002) e Sin City (Sin City,
Robert Rodriguez e Frank Miller, Usa, 2005) si presentava
“OldBoy” quasi come un figlio dell’ormai
onnipresente Tarantino, presidente della giuria dell’edizione
del Festival di Cannes che vide la pellicola di Park Chan
Wook aggiudicarsi proprio il Premio della giuria, ed essere
definito dal regista americano come “Il film che
avrei voluto fare”: ora io non sono certo il massimo
esperto nelle questioni di marketing che si potrebbe interrogare
in proposito, ma da appassionato di cinema è triste
ammettere a quali biechi espedienti si sia ormai piegata
l’industria della settima arte, i cui dirigenti
paiono pensare di vendere pellicole quasi fossero elettrodomestici,
e non, come in questo caso, opere così importanti
da segnare il cuore e l’anima dei propri spettatori,
mettendo tutti di fronte, al pari dei protagonisti, ai
più profondi risvolti non solo della vendetta,
ma della vita stessa.
Fortunatamente, viene da dire, c’è ancora
qualcuno preoccupato per l’uomo come Park Chan Wook,
capace, colpendo a fondo e spesso senza compassione alcuna,
di risvegliare le coscienze con stilettate di inaudita
sagacia e potenza, che vanno oltre il sangue e la violenza,
e come il colpo di forbici di Dae-Su alla guardia del
corpo di Woo-Jin, non si vede ma si sente. Mi-Do afferma
che l’uomo solo si affida alla visione di formiche
per rifuggire la sua condizione, ispirata dalla perfetta
struttura societaria dei piccoli insetti. Eppure l’uomo,
come disse un saggio, è “animale sociale”,
figlio, in questo, della stessa epoca che vide nascere
“l’hybris” alla base della vendetta,
il peccato originale che porta “l’animale
sociale” a dimenticare la seconda parte del suo
appellativo, inequivocabilmente e senza requie o speranza
di un ritorno alle origini.
Eppure, oltre le idee, i piani, i peccati, la violenza,
la vendetta e la morte, pare, circolarmente quanto le
inquadrature, i ricordi, le strade parallele, le scatole
cinesi, e ogni singolo istante della pellicola, tornare
a galla la frase con cui ho aperto il mio commento: “Per
quanto sia il peggiore degli animali, non merito forse
anch’io, di vivere?”
Impossibile replicare, neppure di fronte al peggiore di
noi.
Sulla parete della prigione di Dae-Su incombe uno spettrale
ritratto che definirà l’uomo “morto”
in quella stessa “cella”. Del resto non sono
le pareti a fare la prigione, ma la nostra condizione.
“Se sorridi, il mondo ride con te. Se piangi, allora
piangi solo.”
La vendetta va servita fredda, e mangiata in solitudine,
in disparte. Eppure l’uomo, come la formica, vive
per il branco, ed è la più “sociale”
fra le creature della terra.
Forse Park Chan Wook viene dall’Antica Grecia. Per
fortuna sua, e senz’altro, anche nostra. |
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