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Last Days
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Sottotitoli:
Italiano
Formato:
1.77:1, 16/9
Regia:
Gus Van Sant
Lingue:
Italiano e Inglese Dolby Digital 5.1
Cast:
Michael Pitt, Asia Argento, Lukas Haas, Scott Green, Nicole Vicius
Durata:
98'
La Trama
Blake (M. Pitt), musicista distrutto dal successo e dall'uso di droghe, ripara dopo la fuga dalla comunità di recupero in cui era stato inserito alla vigilia di un tour con la sua band, nell'immensa e decadente villa lasciata vuota da una famiglia ormai lontana e abitata saltuariamente da un gruppo di amici legati a loro volta al mondo della musica: Lukas (L. Haas), Asia (A. Argento), Nicole (N. Vicius) e Scott (S.Green).
Alla ricerca di una solitudine pura e di indizi sulla strada da percorrere, Blake si confronta con il mondo esterno dei venditori porta a porta, con la religione e se stesso, cercando un contatto con una natura distante e fuggendo dall'uomo, che l'insegue sotto forma di detective o assistente sociale o lo prosciuga come un amicizia nata male.
Non esiste un racconto, una storia, un modello da seguire: assistiamo, impotenti e persi quanto lo stesso protagonista, all'inesorabile caduta verso il Destino di un “agnello” dello spettacolo che, prima di perdersi, è stato perso da una società distante e incapace di afferrarne il desiderio di libertà. Nessuna analisi di colpe e meccanismi di indagine, semplicemente una corsa verso l'inevitabile, filtrata attraverso una condizione di penoso decadimento e una sensibilità che regala momenti di grande lirismo e bellezza.
Tre giorni per morire, simbolismi in un loop, e, malgrado le intenzioni di fuga, un eternità di fama per l'artista che non la volle.

Commento
Prima di ogni cosa, “Last days” NON è una biopic, né tantomeno un film che ripercorra, faccia chiarezza o illumini sulla triste fine della leggenda del rock Kurt Cobain.
L'ultima fatica di Van Sant, chiamato a rispettare gli standard altissimi imposti dal suo “Elephant” (Elephant, Usa, 2002), vincitore a Cannes per la prima volta nella storia della doppia Palma d'oro per film e regia, riprende le fila del discorso aperto da quest'ultima, nello stile, nella struttura e nell'approccio: questa volta le geometrie sono meno rigide, eppure lo schema pare identico. Se, infatti, nel succitato “Elephant” la base sulla quale il regista di Portland si mosse fu il massacro della Colombine, questa volta abbiamo, appunto, l'associazione con la figura di Cobain, che Blake ricorda fisicamente, per età e stile, ma da cui si dissocia profondamente andando a creare uno standard con il quale Van Sant pare volersi confrontare con il suo gelido amore per la controversa interiorità dei giovani posti, volenti o nolenti, di fronte al mondo. Ancora una volta, però, la Hollywood di “Will Hunting – Genio ribelle” (Good Will Hunting, Usa, 1997) e “Scoprendo Forrester”(Finding Forrester, Usa, 2000), i suoi due lavori se vogliamo più commerciali e meno riusciti (soprattutto il secondo), appare lontana, e il regista ha lo spazio e la libertà per confezionare un prodotto vuoto solo in apparenza, di grande valore tecnico e artistico e difficilissima interpretazione, pervaso da una bellezza incarnata, ancora una volta e come nei suoi primi lavori, dal protagonista – come fu per “Drugstore Cowboy” (Drugstore Cowboy, Usa, 1989) e “Belli e dannati” (My own private Idaho, Usa, 1991) -, impermeabile all'esterno e al coinvolgimento emotivo del grande pubblico. Questa volta, però, Van Sant è stato previdente: complice lo shock provocato nelle sale dalla freddissima macchina da presa che in “Elephant” seguiva il massacro degli studenti come un videogioco, qui il regista mise le mani avanti prima della proiezione a Cannes avvertendo il pubblico – formato, per la maggior parte, da vecchi fan dei Nirvana – che probabilmente non avrebbero trovato quello che si aspettavano, e avrebbero potuto rimanere delusi: così è stato, ed oltre alle controversie con la vedova del cantante Courtney Love (pare che ci siano lei e una possibile causa dietro alla scelta di cambiare il nome del protagonista in Blake), Van Sant è uscito da Cannes con una schiera di nuovi nemici fra i fan della defunta star del rock e, questa volta, senza alcuna Palma, neppure quella ampiamente ventilata per Michael Pitt, selvaggio protagonista dall'aspetto quasi animale che, per l'occasione, ha rinverdito i suoi fasti di musicista componendo i pezzi che lo stesso Blake canta nel corso della pellicola.
Eppure, ad una seconda e più approfondita visione, io credo che il grande merito di questo film sia stato proprio quello di partire da un riferimento a Cobain per superarne la cronaca della morte, o della vita, ed abbracciare il fenomeno, legato al successo, alle droghe e al confronto con l'esistenza e la rivolta di cui il simbolo del grunge anni '90 è stato solo una delle ultime vittime, passate negli anni attraverso i volti, i miti e le note di Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, tutti, come Cobain, morti a ventisette anni.
In particolare, io credo che la visione di questa pellicola possa colpire principalmente il pubblico più adulto, quello, per intenderci, che alla morte di Cobain avrà reagito con la compostezza dell'età e del tempo che, come citato, aveva già seppellito molti miti dei decenni passati: forse anche Van Sant è invecchiato, riuscendo a stabilire un rapporto paterno con i suoi personaggi che, fino ad “Elephant”, non aveva trovato un riscontro così evidente e sentito, nonostante l'indomita freddezza quasi “dogmatica” della sua macchina da presa. La generazione che ha visto l'eroina distruggere amici, fratelli, parenti, mogli e mariti ha probabilmente uno strumento in più per confrontarsi con la realtà di un ragazzo al culmine del successo, con schiere di fan e un tour mondiale ad attenderlo, distrutto dalle droghe e dalle sue stesse scelte, incapace di un dialogo con l'esterno – gli interventi del venditore di pubblicità delle pagine gialle e dei mormoni non paiono necessitare di spiegazioni, nella loro disarmante chiarezza – che, probabilmente, nelle campane di una chiesa che non c'è, chiuso nel santuario della sua musica e in mondo interiore che nessuno pare afferrare e comprendere – come per la sua disperata richiesta d'aiuto – coglie il significato del ruolo dell'agnello di cui i due mormoni parlano senza che lui possa essere presente a sentire, in merito all'utilizzo dell'acqua al posto del vino nel rito della Chiesa.
I mormoni spiegano ai compagni di Blake che il sacrificio di Gesù ha permesso l'eliminazione del concetto stesso di sacrificio, e che è per i figli venuti dopo di lui questo ha significato il perdono alla sua richiesta, senza il dovere di una rinuncia imposta da un Dio più antico e rigido. E' una mia personale e forse eccessiva reinterpretazione, eppure credo che il messaggio sia molto più profondo che la satira rivolta ai due gemelli in cerca di nuovi fedeli di porta in porta, considerata l'importanza che uomini – e simboli – come Cobain/Blake hanno nel secolo delle comunicazioni di massa, della televisione e di internet.
Allo stesso modo la natura, sfiorata da Blake come la società, appare distante e fredda quasi quanto la macchina da presa o l'acqua del fiume nel quale cerca una nuova dimensione il protagonista nell'apertura, una natura imparziale, splendida e spietata, che segue la scia tracciata dal capolavoro di Malick “La sottile linea rossa” (The thin red line, Usa, 1999). Una pellicola dunque complessa, ricca di rimandi e riferimenti non solo musicali, più adatta, forse, e per la prima volta, a un pubblico “maturo”, che abbia alle spalle i drammi non solo dei miti e l'esperienza venuta dal dolore necessario per superare gli stessi nel tempo: un lavoro certo freddo, di improvvisazione quasi matematica, a tratti potenzialmente irritante e troppo “d'autore” per il grande pubblico. Eppure, al contempo, un respiro così profondo da far bene al cinema, una piccola bomba pronta ad esplodere negli occhi di chi decida, un giorno o l'altro, con il tempo, di affrontare anche la distruzione del mito: in fondo, il grunge di Cobain era stato proprio questo.
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Recensione a cura di:
Gianmarco Zanrè
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