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The Manchurian Candidate


La Tecnica
E’ storicamente difficile, parlando di cinema, incappare in remake che siano all’altezza degli originali, anche e in special modo quando, a distanza di quarant’anni, temi, vicende e approccio, così come metodo di narrazione e coscienza sociale, si ritrovano inevitabilmente stravolte: nel caso di “The Manchurian Candidate” Jonathan Demme, da grande professionista qual è, ha centrato il bersaglio ancora una volta, dopo i successi mietuti negli ultimi anni con “Il silenzio degli innocenti”, “Philadelphia”, “Beloved” e, recentemente, con lo straordinario “The agronomist”.
Partendo dal romanzo di Richard Condon che, nel 1962, aveva ispirato la sceneggiatura originale di George Axelrod portata sugli schermi da John Frankenheimer (scomparso di recente, di cui ricordiamo anche Ronin, del 1999) e interpretata da Frank Sinatra, la cui figlia aveva acquistato i diritti per una possibile riproposizione dell’opera nel corso degli anni ’80, Pyne e Georgaris prima – attraverso una solita struttura -, e lo stesso Demme poi, hanno certo rinverdito, con questa pellicola, i fasti di un genere che, almeno negli ultimi anni, giaceva in una pericolosa palude di luoghi comuni e trame banali. Gli ingredienti necessari per un prodotto di qualità ci sono tutti: una regia rigorosa e asciutta, una buona sceneggiatura, fotografia straordinaria e cast di primissimo piano. Se i meriti degli sceneggiatori vanno soprattutto individuati nella capacità di attualizzare un soggetto certo datato (nel primo lungometraggio il “Manchurian” era legato alle guerre combattute a partire dagli anni ’50 in Corea e nell’area orientale dagli statunitensi, alla minaccia comunista e alle paranoie post seconda guerra mondiale) e dando un ritmo vibrante all’intera vicenda, la parte del leone, fin dai primi minuti, è certo riconoscibile nel lavoro di Tak Fujimoto, grandissimo direttore della fotografia, che orchestra luci e colori quasi l’intera pellicola fosse frutto degli allucinati incubi di Marco e della sua squadra.
Dai pozzi incendiati in Kuwait con cui si apre il film all’uso delle luci nel parallelo fra i percorsi di Marco e Shaw, così come all’esasperazione dei colori nel loro confronto, ogni singola scena pare essere stata studiata dal direttore giapponese in modo da risultare ipnotica, elettrica, preda di un equilibrio da ricercare più nella razionalità che nell’istinto: viene da pensare che il suo apporto sia stato simile a quello che, per la musica, fu il passaggio dal folk al rock.
Ottimo anche il cast, dominato dalle interpretazioni quasi opposte di Washington e della Streep, il primo meravigliosamente contenuto, quasi la sofferenza di Marco e la sua incertezza fossero spinte nel cuore dell’attore per cercare in ogni modo di evitare una loro esplosione all’esterno, la seconda assolutamente brillante nel presentare un personaggio degno di una tragedia greca, madre e manipolatrice, protettrice e carnefice, vera “anima nera” dell’intero film– ad oscurare anche il ruolo di vera “nemesi” della stessa corporation Manchurian -; accanto a loro si difendono, e al meglio, il veterano Jon Voight, il bravissimo e misurato Liev Schreiber (molto meglio nella versione originale) e il grande Bruno Ganz, presto sugli schermi con il suo Hitler de “La caduta”.
Tornando a Demme, va riconosciuta al regista la capacità, affinatasi nei suoi ultimi lavori, di raccontare senza eccedere in didascalismi e gigantismo, come era accaduto per i pur grandi “Il silenzio degli innocenti” e “Philadelphia”, leggermente viziati da una sorta di “mania di protagonismo” che ora pare essere scomparsa per lasciare spazio a un indagine della camera nelle vite dei protagonisti, e che gli attori, pare quasi seguendo l’esempio dello stesso regista, imbrigliano al meglio moderando le loro pulsioni “da star” (cosa che, per Anthony Hopkins e Tom Hanks nelle pellicole sopra citate, non era accaduta). Sempre restando in ambito registico (ma non solo), segnalo come sempre i tre momenti clou della pellicola, concentrati nella prima parte, vero punto forte di questo ottimo lavoro: la prima segnalazione è per lo straordinario monologo della Streep a sostegno della candidatura a vicepresidente del figlio, narrato da una camera leggera e sempre in movimento, e recitato impeccabilmente, tanto da persuadere lo stesso Demme, che in un intervista dichiara “che avrebbe votato per chiunque stesse sostenendo Maryl Streep in quella scena”.
La seconda citazione va al cammino parallelo di Ben Marco e Raymond Shaw lungo i corridoi che portano il primo all’appartamento del vecchio compagno Melvin e il secondo alla stanza dell’operazione, sia essa sogno o realtà. Funzionale il montaggio, splendidi i contrasti di luci e fotografia, il buio del percorso di Marco e il chiarore avvolgente, guidato da simmetrie kubrickiane, di Raymond. In particolare, splendida l’inquadratura della zona letto della suite, sovrastata da un quadro che non solo riproduce la stanza stessa, ma in cui è riprodotto un quadro che riproduce la stanza stessa, e così via, in un infinito gioco di scatole cinesi.
L’ultima scena che mi pare doveroso sottolineare è legata al confronto fra Ben e Raymond all’interno della “base operativa” della campagna elettorale di quest’ultimo, giocato tutto sul contrasto fra i primi piani dei protagonisti e il gioco di luci, silhouettes e colori filtrato dalle vetrate alle loro spalle, che pare frutto dell’allucinato incubo che i due uomini stanno vivendo sulla loro pelle, o, per dirla meglio, sotto di essa.
Concludo confermando anche la qualità dell’edizione italiana che, pur non essendo allo stesso livello della special edition di “Collateral” conferma la Paramount come una delle case che, in fase di editing, danno più garanzie.

Contenuti Extra
Passate le “carestie” figlie della Bim torno a confrontarmi con una sezione di extra soddisfacente, che, oltre al consueto commento del regista e dello sceneggiatore Pyne, offre un buon documentario sulla realizzazione della pellicola (che, forse, poteva essere più lungo e approfondito ma, dopo le ultime review, mi soddisfa pienamente), partendo dall’analisi dei generi esplorati da “The Manchurian Candidate”, dal thriller politico alla tragedia greca, per giungere alle varie fasi di lavorazione che hanno portato all’attualizzazione dei concetti e delle problematiche mostrate nel corso del lungometraggio originale, alla realizzazione delle scene, al lavoro degli attori e alla collaborazione fra Demme e Fujimoto, sodalizio ormai saldo da quattordici anni che ha prodotto almeno una dozzina dei film drammatici realizzati dal regista de “Il silenzio degli innocenti”.
Una curiosità: per poter realizzare al meglio le sequenze del lavaggio del cervello, Demme e la sua troupe si sono avvalsi della consulenza medica di specialisti di neurochirurgia, che – sconvolgente solo il pensiero – hanno confermato che dopo il trapanamento del cranio e l’inserimento di una piccola sonda, o di un “lavaggio del cervello”, una persona è in grado di riprendere le sue attività normali dopo dieci minuti soltanto.
Segue una ricca sezione dedicata ai tre protagonisti della pellicola Washington, Streep e Schreiber, raccontati dai colleghi e dal regista in brevi sezioni tratte, probabilmente, dallo stesso documentario che apre gli extra.
La parte successiva dell’apparato è interamente dedicata alle scene non presenti nel “final cut” della pellicola, suddivise tra inedite e tagliate (queste ultime, due interviste al personaggio di Eleanor Shaw che, nel corso del film, vengono soltanto accennate). E’ possibile, in questo caso, scegliere di vedere le scene così come sono state girate o filtrate dal commento di Demme e Pyne. I tagli mostrati in questa sezione non aggiungono quasi nulla al film, e, probabilmente, se lasciati, avrebbero nuociuto quasi certamente all’ottimo ritmo e alla tensione drammatica, soprattutto della prima parte (unica eccezione, il rientro a casa di Marco, che compra libri d’amore per la sua anziana vicina su commissione; nel corso del film, infatti, all’elenco che Rosie fa a Ben dei suoi “prodotti tipici” acquistati al supermercato, può risultare stonata la presenza di romanzi di questo genere, senza una spiegazione precisa).
Chiudono la sezione la scena madre del provino di Liev Schrieber e una serie di piccoli “shot” condotti da scrittori, giornalisti e autori a proposito di temi politici scottanti come quelli mostrati dal film, il rapporto fra i giovani e il voto, l’amministrazione Bush. Tra gli altri, spicca il regista Sidney Lumet, recentemente premiato dall’Academy con l’Oscar alla carriera.

Commento Finale
In casi come questo “The Manchurian Candidate”, spesso si parla di fantapolitica, di thriller d’autore, scenari possibili quanto agghiaccianti e spaventosamente inquietanti se realmente presenti all’interno della nostra società: Michael Moore e il suo Fahreneit a parte, riflettendo sul recente – e certo più incisivo - “The Corporation”, dove si parla degli intrighi delle multinazionali dietro al secondo conflitto mondiale (solo per citare un caso) o alle spalle dei fenomeni di massa, ripensando ai dirottatori dell’attentato al World Trade Center addestrati come piloti nelle scuole americane, alle “armi di distruzione di massa” presunte che avrebbero motivato le decisioni di Bush in merito alla seconda Guerra del Golfo, ignorando gli interessi dello stesso presidente degli USA in campo petrolifero, o ripensando all’antica amicizia che lega la famiglia di quest’ultimo a quella del famigerato Bin Laden, tutta questa “fantapolitica” non sembra poi così lontana.
Una volta archiviata la storia raccontata dal film, restano l’amarezza e il timore di quello che potrebbe fare – ha fatto, sta facendo – quella che, almeno sulla carta, risulta essere la nazione più potente della terra.
Da brividi. In ogni sua parte.
Complimenti a Demme e ai suoi, oltre al professionismo, per il coraggio. Profetico.

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Gianmarco    
 
   
 
  Titolo:
The Manchurian Candidate

Sottotitoli:
Italiano, Inglese.

Formato:
1.78:1 Widescreen.

Regia:
Jonathan Demme.

Lingue:
Italiano e Inglese 5.1.

Cast:
Denzel Washington, Maryl Streep, Liev Schreiber, Jon Voight, Kimberly Elise, Jeffrey Wright, Ted Levine, Bruno Ganz.

Durata: 124'

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