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Primavera, Estate, Autunno, Inverno.

E Ancora Primavera


La Trama
In una capanna galleggiante sul lago Juen, lontani dal mondo e dalla “vita mondana”, un anziano monaco (Oh Young-Su) e il bambino suo allievo (Kim Jong-Ho), affrontano la vita secondo i ritmi della natura e della disciplina buddista.
Attraverso primavera - con lo sbocciare dei fiori e della vita, quando il piccolo allievo impara sulla sua pelle il prezzo della crudeltà dell’innocenza,
il rigore della disciplina e la punizione dopo il peccato -, estate – l’allievo, ormai adolescente (Seo Jae-Kyung), conosce l’amore, fisico e spirituale, incarnato da una giovane (Ha Yeo-Jin) giunta dal suo maestro per poter essere curata, e la rigidità della dottrina -, autunno – con il ritorno del ragazzo ormai uomo (Kim Young-Min), dopo la fuga e l’omicidio, in una dolorosa, difficile catarsi verso l’espiazione, la maturazione, il superamento della rabbia -, inverno – l’allievo, ormai maturo (Kim Ki-Duk), da solo, al centro di una natura paralizzata, e la sua strada verso l’illuminazione, il passaggio a maestro – e di nuovo primavera – il ciclo ricomincia, con il vecchio maestro e un nuovo allievo (di nuovo Kim Jong-Ho) – attraversiamo, con i personaggi, la natura e le stagioni, un ciclo che pare destinato a ripetersi all’infinito, dalla nascita alla morte, dall’impulsività alla maturazione.
Un ellissi dai fiori e dalle farfalle della primavera agli acquazzoni estivi, dai colori intensi dell’autunno al ghiaccio silenzioso dell’inverno, apparentemente senza fine.
Come il mondo, come la vita.

  

Commento
E’ difficile, quasi impossibile poter restringere il bello e tradurlo in parole.
Trovo che questo film, dalle immagini ai silenzi, dalle (pochissime) parole ai suoni rarefatti, dalle efferate crudeltà ai momenti d’amore, sia, infatti, assolutamente splendido.
La capanna galleggiante al centro del lago, lontana dal mondo e dalla “vita mondana” criticata dall’anziano maestro, per quanto remota possa sembrare a noi, che oltre a essere – appunto - “mondani” siamo anche occidentali, appare come un punto dell’universo in cui tutto si asciuga all’essenziale, seguendo, forse, una dottrina che proprio questo insegna, più o meno rigidamente.
Il desiderio crea dipendenza, e la dipendenza porta pensieri di morte”, dichiara il maestro al suo giovane allievo innamorato, quasi non si rivolgesse a lui solo, ma al lontano mondo “esterno” che del desiderio ha fatto la sua ragione di vita.
Non è colpa tua”, afferma poco prima, conscio, probabilmente, del fatto che in tutti gli uomini è presente quel desiderio, e nel ciclo vitale di ognuno vi è almeno un occasione importante per confrontarsi con lui. Nella magica ellissi dipinta dal regista/scrittore/attore/montatore Kim Ki-Duk pare si possa incontrare una di queste occasioni ad ogni stagione della vita.
Nella primavera del bambino, come travolti dalla bellezza del fiorire del mondo e dalla crudeltà che appare insita nell’innocenza, come fosse un “male” ancora più antico, impariamo quale sia il peso della sofferenza quando è arrecata a noi stessi, e conosciamo la morale esterna che attraverso la punizione forma i nostri primi dilemmi e turbamenti interiori. Per una volta, e fortunatamente, anche nei piccoli non è presente solo l’immagine positiva, ma, più d’ogni altro, il seme appena sbocciato di quelli che saranno i peccati dell’uomo adulto.
Viene poi l’estate dell’adolescenza, portando con se il primo amore, difficile da conquistare e da inseguire, sognato eppure temuto, luminoso come il sole attraverso l’acqua limpida e pungente come un acquazzone.
Il desiderio non è spiegato, solo vissuto, come tutte le emozioni della vita e delle stagioni. Il passaggio più poetico, a mio parere, della pellicola, che riporta alla mente le magiche atmosfere dell’Atalante di Vigo, dove l’amore tocca e ferisce, ma disegna, forse, la stagione più intensa e, per tornare a un termine mai più adatto, incredibilmente bella.
Con l’autunno emozioni e ferite portano colori più intensi e violenti, come le foglie che cadono e una vita ormai al tramonto: il peccato, il dolore, la rabbia, l’odio dell’allievo tornato alla capanna dopo la fuga d’amore che aveva chiuso la sua estate, ma non reciso il legame alla dottrina (emblematici il momento della partenza, con la statua del Buddha come unico bagaglio, e il ritorno, con la stessa statua, mai sostituita nella capanna) si contrappongono all’equilibrio, alla saggezza, alla severità del maestro, che punisce, riscatta, colpisce, e traccia (non solo “spiritualmente”) la via della redenzione per il suo antico allievo.
Questo, probabilmente, il passaggio più “parlato” della pellicola, il più “intaccato” dal mondo esterno e lontano (la presenza dei due poliziotti nell’attesa del completamento del sutra di purificazione dell’allievo è forse più lunga, e senz’altro più “invasiva”, di quella della ragazza), rappresentato appunto dagli ispettori che, come in ogni classica parabola zen, da portatori delle inquietudini esterne, neppure con le pistole riescono a colpire un bersaglio che il vecchio monaco, quasi senza guardare, centra con un sasso.
Forse la stagione più ricca di simbologie, dai colori con cui è dipinto il sutra fino agli spari stessi, unici rumori non “naturali”, presenze “inquinanti”, come la lattina che galleggia sull’acqua, in un paradiso quasi incontaminato come quello del lago Juen. Di questa stagione anche le frasi più significative, da quella, già citata, a proposito del desiderio, fino al dialogo, a mio parere straordinario, fra il monaco e l’ex-allievo appena tornato: “Dunque sei tornato. Sembri sconvolto, per quale motivo?” – “Io la odio, quella puttana!!! Ha detto di amare solo me, e poi ha trovato un altro uomo!!!” – “E tu che diritto hai di considerarla tua? Non può forse qualcun altro provare per lei quello che provi tu? La vita è trovare, e imparare a rinunciare a ciò che si è trovato.”
Resta infine l’inverno, con il lago ghiacciato, i dipinti scoloriti e una natura che pare lontana, vaga, quasi distante come la cima di un monte che l’allievo divenuto maestro deve conquistare allo stesso modo di quando, da piccolo, ha imparato per la prima volta a conoscere la punizione e la dottrina: lo fa con una statua stretta in mano, ma questa volta non è più una partenza, ma un arrivo, preparato meticolosamente, con calma pacifica e autodisciplina, andando a scolpire il bello anche sulla fredda superficie del ghiaccio che pare eterno…
E accanto a lui, tutto ricomincia, nel pianto di un bambino portato a lui da una madre segnata da un peccato misterioso, che il ghiaccio si prende come fosse l’ultimo tributo che il monaco stesso, e il bambino futuro allievo, dovranno pagare prima dell’inizio di un ciclo, e della fine di un altro.
E’ difficile, come dicevo, quasi impossibile, poter restringere il bello e tradurlo in parole.
Ho cercato di descrivere quello che il bello mi ha suggerito, ma ci sarebbe molto, molto di più in cui cercare, scoprire, scavare… L’intero, immenso background della cultura buddista, colmo di simboli e immagini, che, da “profani”, possono generare domande ma non altrettante risposte: l’uso degli animali e il loro significato, soprattutto per quanto riguarda il gallo (legato forse all’esplosione del giovane durante l’estate?), il gatto (il sutra della redenzione, tracciato in nero con la sua coda, pare contrapporsi alla purezza del pelo bianco, così come le condizioni fisiche del felino stesso paiono profondamente legate a quelle dell’allievo ritornato) e soprattutto al serpente, che, al contrario dell’iconografia consueta del “nostro” occidente, assume qui un significato non “positivo”, ma certo non legato al peccato e al male, anzi, forse, almeno per quanto mi riguarda, più alla natura e alla sua bellezza e crudeltà; i colori, da quelli delle stagioni alle lettere dipinte del sutra; la disciplina, che nega il contatto con il mondo esterno eppure, in un certo senso, dimostra di non sapergli tenere testa, o forse di non sapervi convivere (“E’ facile togliere la vita a un altro, ma difficile toglierla a se stessi”, recita il maestro); le porte, che, nella capanna come all’ingresso del lago, dividono stanze e ambienti senza pareti, e che paiono portare con loro un significato diverso da quello che, di norma, è consuetudine dare loro (il ragazzo che, per fuggire nel letto dell’amata, non riuscendo ad aprire la porta passa attraverso la stanza superando, a fatica, le pareti che non ci sono); la “forza” del maestro e del luogo, che, come per magia, paiono far muovere sul lago la capanna galleggiante, e, allo stesso modo, paiono poter riportare la barca dalla riva alla capanna, o fermarla, all’occorrenza (curiose, a questo proposito, le improvvise apparizioni del maestro, anche quando, almeno secondo la logica, dovrebbe essere confinato sulla capanna, privo di barca).
Dedico gli ultimi appunti alla presenza dei due poliziotti, che, dopo aver puntato la pistola all’allievo e sparato alla lattina, paiono maturare con lui, consumando questa stessa maturazione nella presenza costante accanto al loro ricercato nella realizzazione del sutra e la rinuncia all’utilizzo delle manette, alla partenza, e, in seguito al loro intervento e all’arresto, al ritorno dell’allievo maturato con l’inverno, con un autodisciplina che parte dal corpo (le arti marziali) e che passa attraverso arte (la scultura di ghiaccio, altra statua del Buddha) e spirito (la preghiera e la “scalata”, non solo fisica, che chiude il ciclo).
Per concludere, certamente non avrò descritto il bello come volevo, in queste parole, ma credo che la cosa migliore che si possa fare per averne un idea, sia guardare questo film e pensare alle stagioni, viste e vissute, una sorta di bonus della nostra vita. Penso che allora sarà tutto diverso. Non facile, ma straordinariamente, di nuovo, bello.

Continua

   
Gianmarco    
 
   
 
  Titolo:
Primavera, Estate, Autunno, Inverno…
E Ancora Primavera

Sottotitoli:
Italiano per non udenti.

Formato:
Formato Video: 16:9 (1,85:1).

Regia:
Kim Ki-Duk.

Lingue:
Italiano 5.1,
Coreano stereo.

Cast:
Oh Young-Su, Kim Ki-Duk, Kim Young-Min, Seo Jae-Kyung, Ha Yeo-Jin, Kim Jong-HoRegia: Kim Ki-Duk.

Durata: 103''

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