La Trama
J. M. Barrie (J. Depp), commediografo scozzese
che visse gli anni di maggiore successo
sulle scene londinesi nei primi anni del
secolo scorso, rivisitato attraverso una
romanzata biografia ispirata al libro “L’uomo
che era Peter Pan” di Allan Knee
e legata a uno dei periodi più significativi
del suo percorso umano e artistico: la genesi
della sua opera di riferimento, quel “Peter
Pan” che ha fatto e continua a far
sognare grandi e piccini in tutto il mondo.
Barrie, fresco di un grosso fiasco, ormai
mal sopportato dalla critica e sull’orlo
del tracollo agli occhi dei sofisticati
salotti dell’alta società,
sostenuto quasi più per affezione
che per fiducia dal suo mecenate Charles
Frohman (D. Hoffman) e dalla moglie Mary
(R. Mitchell), conosce durante una delle
sue consuete passeggiate al parco la vedova
Sylvia Llewelyn Davies (K. Winslet) e i
suoi quattro figli, dal piccolo Michael
(L. Spill), a Jack (J. Prospero), passando
attraverso il maggiore George (N. Roud)
e l’introverso Peter (F. Highmore):
nasce da subito, fra lo scrittore e i ragazzi,
una complicità che ne cementa l’amicizia
con la donna, alimentando la creatività
in crisi di Barrie e fornendo ai Davies
un compagno di giochi in grado di condurli
oltre il dolore patito per la traumatica
perdita del padre, scomparso improvvisamente
per una grave malattia.
A questa nuovo, inconsueto rapporto, basato
per lo più sui giochi e i racconti
inventati da James Barrie, si oppongono
la stessa moglie del commediografo e l’austera
madre di Sylvia, l’inflessibile Emma
Du Maurier (J. Christie), nonché
l’alta società in cui i due
sono – loro malgrado – inseriti.
La relazione che intercorre fra la vedova
e lo scrittore è vista maliziosamente,
e lo scandalo coinvolge anche i bambini.
Alle voci, inoltre, si aggiunge la malattia
di Sylvia, destinata a privare i piccoli
Davies anche della madre, ed esponendoli
al sopraggiungere – sempre troppo
affrettato – dell’età
adulta. Il termine della storia, che coinciderà
con la prima rappresentazione ufficiale
di “Peter Pan”, porterà
una maturazione definitiva nei Davies, in
particolare in George e Peter, negli occhi
dei quali Barrie rivede i suoi traumi passati
e la passione che prova nel sognare ad occhi
aperti. Nonostante il successo, la malattia,
le voci e le vicissitudini della vita “vera”,
lo scrittore riuscirà a portare i
suoi prediletti e la triste Sylvia all’Isola
che non c’è, quel luogo dove,
prima, era sempre fuggito solo, lasciandosi
dietro un mondo che, almeno all’apparenza,
non riesce più a sognare…
Commento
Ci sono favole e storie che, pur essendo
già state raccontate, ascoltate e
rivisitate più volte, esercitano,
sul pubblico, un fascino unico e irresistibile,
grazie probabilmente a una magia operata
su di loro dagli uomini (e dalle donne)
che per primi le raccontarono, e per cui,
anche a distanza di decenni, o secoli, sono
ricordati. James M. Barrie è uno
di questi uomini. Il suo “Peter
Pan”, con il volo, i pensieri
felici, la seconda stella a destra e l’Isola
che non c’è, non solo ha cambiato
radicalmente la sua carriera artistica dandogli,
al contempo, una sicurezza economica come
avrebbe potuto soltanto immaginare, ma resta,
a tutti gli effetti, l’opera che ha
consacrato e reso immortale il commediografo
scozzese. Quando entrai in sala, la prima
volta che vidi questo film, sapevo di andare
incontro a una rivisitazione romanzata di
quelli che furono gli avvenimenti di una
parte della vita di Barrie, come spesso
accade quando, sugli schermi, passa una
“biopic”, e, al contempo
– complice la pioggia di nominations
all’ultima edizione degli Oscar –
avevo il timore di trovarmi di fronte una
pellicola di valore discutibile infarcita
di stucchevoli parentesi “mielose”.
Fortunatamente ho avuto modo di ricredermi.
L’opera di Forster, infatti, pur non
essendo certo un capolavoro del cinema,
ne coglie lo spirito traducendo al meglio
i contenuti dell’opera di Barrie accostando
ad essa lo spirito sognante e vivamente
sentito dell’intenso “Big
Fish” di Tim Burton, opera affine
– pur se tecnicamente e visivamente
superiore – a quest’ultimo lavoro
del regista di “Monster’s
ball”.
Difficile non rimanere coinvolti dalla vicenda
di un uomo capace di filtrare il mondo attraverso
il fantastico, sfruttando l’immaginazione
come evasione e stimolo di fronte ai momenti
peggiori che la vita è pronta a riservare
a ognuno di noi, soprattutto per quanto
riguarda la perdita dei propri cari e la
fragilità dei cuori dei bambini,
veri e propri protagonisti, accanto allo
stesso Barrie, della pellicola. Ottima anche
la resa dell’ispirazione, che, come
ogni “artista” o presunto
tale ben sa, spesso nasce dalla realtà
per essere poi filtrata attraverso cuore
e sogni, in una miscela di cui solo l’autore
conosce i segreti più reconditi:
coinvolgenti e mai eccessive, a questo proposito,
le parentesi “fantastiche”
che James vive e Forster trasmette, attraverso
immagini delicate e fiabesche, allo spettatore.
Dalla pioggia sul pubblico nel giorno del
fiasco alla danza con “l’orso”
Porthos, passando attraverso cowboy, pirati,
uncini e la porta aperta dalla sua camera
al sogno – splendido il paragone con
il buio della camera della moglie, aperta
nello stesso momento, accanto alla sua –
veniamo posti innanzi a un mondo che forse
non comprenderemo completamente, ma che,
per quanto cinici, disillusi, ignoranti
si possa essere, non può non riportarci
a quando, bambini, trasformavamo ogni cosa
in quello che, in quel momento, avremmo
voluto: chi non ha mai giocato a “guardie
e ladri”, o non ha finto che dei
vecchi vestiti fossero i panni di un mostro,
uno stregone, un astronauta, o non ha trasformato
il giardino di casa in una foresta tropicale?
Tutti siamo stati bambini, e questo film
pare essere rivolto a quella parte di noi
che, col tempo, tende a perdersi dietro
i problemi e le consuetudini della vita
di ogni giorno. Hoffman, già Capitan
Uncino nell’Hook di Spielberg, nel
corso di una delle interviste, afferma:
“Diventare adulti e maturare è
fondamentale, ma occorre ricordarsi che
non bisogna assolutamente crescere.”
Questo pare suggerire anche lo stesso Barrie,
con il suo Peter, il ragazzino che non vuole
diventare grande, e con l’Uncino ossessionato
dal ticchettare di un orologio, il tempo
che avanza rapendo ogni angolo del mondo
che possiamo aver immaginato, o esserci
ritagliati nel corso di tutta una vita.
Il tempo è inesorabile e impietoso,
così come chi vorrebbe vedere distrutti
i bambini perduti, o le fate: per questo
esiste l’Isola che non c’è,
per coltivare una speranza, e la possibilità
di portare nel cuore qualsiasi cosa si voglia,
e partire restando fermi, trasformare tutto
nel Tutto.
L’Isola che non c’è come
un ancora, una salvezza, una dimensione
interiore: il mondo di Barrie donato al
Mondo, e ai suoi più importanti abitanti,
quei bambini che tendiamo a sottovalutare
una volta persi dentro di noi.
I bambini che non sanno tenere i segreti,
o mentire con gli occhi, e che sono specchio
delle angosce vissute anche – e soprattutto
– a causa dei grandi: i primi a soffrire
per la perdita delle persone più
care, dai nonni ai genitori, alla ricerca
di una verità che spesso, per gli
stessi motivi che li vedono perdersi, gli
è negata.
Una pellicola, dunque, commovente ma non
buonista, che parla soprattutto di perdite,
e che vede, e vive, principalmente attraverso
le perdite stesse: il padre dei Davies,
il matrimonio di James, la sfortunata Sylvia.
Chi, fra gli spettatori, è passato
attraverso simili momenti, o ha visto spegnersi
una persona vicina lentamente e inesorabilmente,
fantasia oppure no, non potrà non
rimanere coinvolto o toccato dalla parte
finale, dove, con una sincerità che
supera ogni retorica, di fronte all’Isola
che non c’è assistiamo, inevitabilmente,
alla vittoria dei sogni anche sulla morte.
Come fu per il succitato “Big fish”,
l’importante non è il fatto
in se, ma come il fatto viene vissuto e
raccontato. L’incredibile, in questo
modo, diventa più vero del quotidiano.
Il potere dei sogni sta tutto qui. Barrie,
un adulto che è riuscito a non crescere,
ne ha colto l’essenza dando vita a
un personaggio modellato sui bambini che
cambiarono per sempre la sua vita, riscoprendo
tutto quello che aveva perduto e traducendolo
in qualcosa che tutti proviamo, ma che in
molti rifiutiamo di accettare, considerandolo
una debolezza.
Come recita un recente tormentone musicale,
“Quando i bambini fanno oooh…
Che meraviglia!”
Ed è proprio questo, il segreto dei
bambini, di Barrie, di Peter e, se vogliamo,
del cinema. La meraviglia. Apriamo gli occhi
ai sorrisi e alle lacrime, certo non ci
può fare male.
Continua
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