La Trama
Il detective Will Dormer (A. Pacino), elemento
di spicco della squadra omicidi di Los Angeles,
viene inviato in un piccolo centro dell’Alaska
con il collega Hap Eckart (M. Donovan) per
collaborare con le forze di polizia locali,
guidate da un loro vecchio compagno, alle
prese con il misterioso omicidio di una
diciassettenne. Alle spalle della trasferta,
però, c’è una precisa
scelta del dipartimento, che intende preservare
Dormer dalle indagini della Commissione
Affari Interni.
Accoglie i due detectives la giovane agente
Ellie Burr (H. Swank), grande fan dell’operato
di Dormer, tanto da aver scritto la sua
tesi d’accademia tenendo le sue indagini
come punto di riferimento. La tranquillità
del luogo, la sicurezza dello stesso Dormer,
la convinzione che le indagini scorreranno
con discreta facilità paiono far
presagire una risoluzione abbastanza rapida
della vicenda: eppure, già dalla
prima notte, le cose paiono prendere una
piega inaspettata. Eckart, a cena, rivela
al compagno la sua intenzione di patteggiare
con gli Affari Interni per avere garanzie
una volta incriminato, facendo infuriare
il collega che cerca inutilmente di fargli
capire che è lui la preda a cui i
commissari ambiscono. In aggiunta alla pressione,
le cosiddette “white nights”
artiche impediscono a Will di prendere sonno.
Nei giorni seguenti, grazie all’aiuto
fornito dai due stessi poliziotti di Los
Angeles, il cerchio si stringe intorno all’omicida,
e culmina in una rocambolesca caccia all’uomo
fra i cunicoli e la nebbia delle montagne
appena fuori città: in quest’occasione,
oppresso dalla mancanza di riposo, accecato
dalla nebbia stessa e spinto dalla tensione,
Dormer uccide per caso Eckart, scambiandolo
per l’assassino in fuga. Roso dal
senso di colpa e dall’idea che gli
Affari interni e i colleghi possano pensare
che l’abbia fatto di proposito, Will
occulta le prove scaricando la responsabilità
dell’accaduto sull’assassino
della ragazza, che si rivela essere lo scrittore
Walter Finch (R. Williams). La vicenda così
prosegue nella luce di un giorno perenne
in contrapposizione al buio interiore che
attanaglia il detective, minacciato dallo
stesso assassino, testimone dell’involontario
omicidio di Eckart, e condizionato dal senso
di colpa e dalla tensione per le continue
menzogne volte a celare l’accaduto.
La sola Ellie pare figurare come l’unica
speranza di Dormer, che, più o meno
volontariamente, tiene la ragazza sulle
sue stesse tracce, fino a quando, con la
risoluzione del caso – che Finch spinge
affinché si concluda, complice Dormer,
con l’arresto del fidanzato della
sua stessa vittima – i tre vivranno
un drammatico faccia a faccia, dove tutti
i nodi verranno al pettine, dall’omicidio
della giovane a quello di Eckhart, e, alla
luce di questo continuo giorno, Finch, Ellie
e Dormer avranno modo di cercare, oltre
a una via d’uscita, anche un sonno
che sembra mancare da troppo tempo…
Commento
Io credo, per quello che la mia esperienza,
seppur limitata, può suggerire, che
esistano, talvolta, film “mascherati”,
pellicole che, apparentemente rifugiatesi
in un genere, o in un particolare contesto
– storico o geografico, ad esempio
– portino invece con loro un bagaglio
di nozioni, emozioni, e, in particolare,
suggestioni e conclusioni molto più
“universali” di quello che sembrerebbero
ad una prima, superficiale analisi. Ogni
genere nasconde pellicole di questo tipo,
dai capolavori ai flop, dalla guerra (Full
Metal Jacket, Apocalypse Now), alla fantascienza
(2001, Incontri ravvicinati del terzo tipo),
al kolossal (Gangs of New York), all’horror
(la trilogia degli zombi di Romero) fino,
appunto, al noir (Mystic River, In the cut):
Insomnia rientra perfettamente nelle caratteristiche
di questa particolare tipologia di pellicole.
Presentato, nei trailer e nelle campagne
pubblicitarie, come l’ennesimo thriller
psicologico con la star di turno (in questo
caso due) e spinto dalla “prima volta”
di Robin Williams come “cattivo”,
già dai titoli di testa (e in questo
comincia la serie – lunghissima –
di riferimenti e legami con la precedente
prova del regista, Memento) si può
notare quanto, al contrario, il film nasconda
sotto questa presunta, commercialissima
“pelle”. La misteriosa figura
ripresa di spalle che cerca inutilmente
di strofinare via il sangue filtrato sul
candido polsino della camicia, il sonno
interrotto di Dormer in volo sui ghiacci
sporchi e le foreste silenziose dell’Alaska,
la tensione palpabile presente fra i due
colleghi in viaggio verso un caso “forzato”
lasciano presumere, infatti, una ricerca
molto diversa da quella che, normalmente,
ci si aspetterebbe, da un blockbuster qualunque
di questo genere (vedi i vari Hannibal,
Nella morsa del ragno, Il collezionista
di ossa): innanzitutto capiamo che, per
quanto di successo, di nuovo il protagonista
del lavoro di Nolan è un personaggio
“ai margini”, turbato e fragile,
un “romantico” – come
definito dallo stesso Pacino – preda
di demoni interiori che, per solitudine
– scelta o obbligo morale verso il
lavoro? – e carattere sono rimasti
sepolti nel suo profondo. Lo stesso caso,
inoltre, sembra presentarsi da subito come
una sorta di “pretesto”, troppo
semplice, pur se “senza uscita”
se visto nell’ottica dei locali, da
impensierire in qualche modo Dormer ed Eckhart,
per affrontare, al contrario, i problemi
legati alle indagini degli affari interni
e, dopo la morte dello stesso Eckhart, i
sensi di colpa e la pressione posta dal
luogo, dal sonno e dall’entrata in
scena di Walter Finch, a metà pellicola,
sullo stesso Dormer.
Analizzando in questo senso la struttura
del film l’ipotesi sembra ancor più
plausibile: si parte con la ricerca di un
assassino spietato, ma alle prime armi,
consapevoli che le capacità messe
in campo dalle forze dell’ordine siano
effettivamente troppe, anche in relazione
agli spazi ristretti in cui si muovono,
indagando – malgrado l’immensità
della natura attorno, i centri abitati sono
pochi e scarsamente popolati -, per affrontare
una brusca svolta con la morte di Eckhart
prima e l’improvvisa entrata in scena
di un assassino che, al contrario della
“prassi comune” del thriller
hollywoodiano, ha un volto, una vita normale,
un apparenza altrettanto anonima, e un modo
di procedere che pare più quello
di una persona che voglia, in qualche modo,
tirarsi fuori dai guai.
Lo stesso Williams, in una delle interviste
presenti nei contenuti extra, afferma di
essere stato felice di interpretare un omicida
estremamente realistico, non intriso di
quell’aura di straordinarietà
(uno su tutti: Hannibal Lecter) propria
dei personaggi inventati, bensì rimanendo,
anche nella tonalità di voce e nella
gestualità, nella perfetta ordinarietà:
a tal proposito, l’attore ricorda
di essersi ispirato a un intervista fatta
a Jeffrey Dahmer in carcere in cui il giornalista
rivolge al serial killer la domanda –
“Dove metteva i pezzi tagliati delle
sue vittime?”- e Dahmer, rispondendo
pacato indicando la cinepresa alle spalle
dell’intervistatore – “In
una custodia per telecamere come quella.”-
Fu l’ultima domanda dell’intervista.
Williams cita giustamente: “La cosa
più tremenda, in questi casi, è
la normalità.”
Ed è proprio la normalità
a rendere Dormer tanto vulnerabile: non
è infallibile, il super poliziotto
dello schermo che vince, e non può
fare altro; nonostante la fama, il carattere,
la forza indubbia, è lui, accecato
dalla nebbia e dalla tensione, a uccidere
– pur se involontariamente - Eckhart,
e a cadere preda delle sue bugie prima e
degli intrighi di Finch, poi. Come l’omicida
giustamente fa notare al suo complice/avversario,
“Io non ti ho mai avuto in pugno,
Will, ogni scelta è stata interamente
tua.”, e ancora “Tu non volevi
uccidere Eckhart, vero? E’ stato un
incidente. Così è stato per
me con Kay”. I confini si fanno labili
quanto più ci si avvicina al vero.
In questo senso, e, a mio parere, a “dogma”
dell’intero film, è importante
citare il dialogo decisivo, che avviene
poco prima dell’ultimo incontro fra
Dormer, Finch e la giovane Ellie fra lo
stesso Dormer e l’albergatrice Rachel,
divenuta, in qualche modo, suo confessore:
Dormer racconta la storia agghiacciante
di un commesso di una copisteria che per
sei mesi, ogni mattina, vede un bambino
a una fermata del bus della scuola, fino
a che trova il coraggio per rapirlo, tenendolo
con se tre giorni, seviziandolo e torturandolo
fino a impiccarlo nelle cantine del suo
palazzo. Dormer racconta di come, già
dalla prima occhiata, avesse individuato
in lui l’assassino, ma, per l’assenza
di prove, fosse stato costretto a prelevare
il sangue dal cadavere del ragazzino per
disseminarlo nell’appartamento dell’indiziato,
per evitare che il tribunale non riconoscesse
le accuse. Stremato da un sonno che manca
da sei notti, provato da tensioni e rimorsi,
Dormer chiede alla sua interlocutrice se
quello che ha fatto costituisce, oppure
no, una colpa. A prescindere dalla risposta,
come reagiremmo noi, di fronte a quel dilemma?
Non è più un thriller, un
noir, la ricerca di un assassino. Ma la
natura umana, in ogni suo recesso. Filtra
la luce dalla finestra, come filtra il sangue
sul candido polsino. Ha più colpe
Finch o Randy, il ragazzo della vittima,
che non le lesinava percosse e si portava
a letto la sua migliore amica? Ha più
colpe Finch o Dormer, che nasconde una verità
scomoda per la paura di essere messo sotto
processo? E questa paura è effettivamente
motivata dalla scarcerazione dei criminali
arrestati, o riguarda, piuttosto, la prospettiva
di una vita – professionale e privata
– distrutta?
Forse solo nei sogni, e nel sonno, troviamo
la pace. Forse è per questo che Dormer,
ritrovata la strada, chiede a Ellie di lasciarlo
dormire…
Continua
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