La Trama
Buenos Aires, gennaio 1952. Alberto Granado
(R. De La Serna), 29 anni, biochimico e
ricercatore, amante dei viaggi, dell’avventura
e delle belle donne, corona il sogno coltivato
fin da ragazzino di attraversare l’intero
Sud America in compagnia dell’amico
Ernesto “Fuser” Guevara
(G. Garcia Bernal), 23 anni, laureando in
medicina che con lui condivide pulsioni
di scoperta e spirito libero.
Due amici, una vecchia motocicletta del
’39, migliaia di chilometri e un continente,
il tutto in tre mesi scarsi, per tornare
in Argentina, secondo i programmi, il 2
aprile, giorno del trentesimo compleanno
del corpulento Alberto, dopo aver attraversato
la stessa patria natia, la Patagonia, il
Cile, il Perù, l’Amazzonia
e il Venezuela.
In un viaggio che, come ogni scoperta, rivela
nuove sfumature (e imprevisti) ad ogni tappa,
i due amici conosceranno la povertà
e la bellezza di un continente così
“meticcio” eppure unito,
almeno idealmente, oltre i suoi confini,
che li formerà umanamente, attraverso
le persone, le situazioni, gli amori, le
bugie e le fughe, e professionalmente, tracciando
la futura carriera medica di Granado e formando
l’ideologia rivoluzionaria che sarà
alla base delle battaglie di Guevara.
In mezzo, un percorso che è quasi
un racconto di formazione, durato più
del doppio delle previsioni, iniziato a
cavallo della “Poderosa”
e finito in aereo, dopo deserti attraversati
a piedi e improvvisate navigazioni fluviali
“a ritmo di musica”,
a contatto con la natura quasi incontaminata
e con le vestigia di un passato glorioso
distrutto dalla brama dei conquistatori
europei, vissuto come fuggiaschi e opportunisti
così come validi medici e ricercatori
pionieri nell’affrontare malattie
come la lebbra, grave piaga del Continente.
Il viaggio di due ragazzi alla ricerca della
loro futura strada di uomini.
Fatto di meraviglia, avventura, passione,
dolore, chilometri di arsura e neve, fatica
e gioia, amore e lotta. Prima che la Storia
chieda il suo tributo a entrambi, e prima
che entrambi debbano, ognuno a modo suo,
pagare il loro pegno alla Storia. A loro
modo, vivendola. A loro modo, cambiandola
entrambi. Prima di diventare uomini, di
Cuba, del mondo, del Che.
Ernesto e Alberto, due amici in viaggio
alla scoperta di un Continente.
Commento
“Non è questo il racconto di
gesta impressionanti, ma neppure quel che
si direbbe normalmente un racconto un po’
cinico; per lo meno, non vuole esserlo.
E’ un segmento di due vite raccontate
nel momento in cui hanno percorso insieme
un determinato tratto, con la stessa identità
di aspirazioni e di sogni.”
Così scrive Ernesto Guevara detto
“Fuser” nell’introduzione
al diario dell’epico viaggio condotto
con l’amico Alberto Granado per quasi
tutto il 1952 attraverso il loro continente,
il viaggio che avrebbe segnato la vita del
primo così come la carriera del secondo.
E questo è, in tutta la sua semplicità,
il film diretto da Salles.
Un racconto di due amici, segmento di vite
a prescindere da quanto grandi saranno queste
stesse vite in futuro, un “road
movie” che passa leggero attraverso
una semplicissima epopea che, in grande
o in piccolo, ben rappresenta – per
loro come per ognuno di noi – il passaggio
fra l’adolescenza (o la giovinezza)
e l’età adulta, quando di colpo
si comincia a prestare orecchio alle risposte
che il cuore da alle fatidiche domande come
“cosa farò da grande?”
Se l’umanizzazione dei miti è
spesso osteggiata dai cultori dei miti stessi,
è invece estremamente interessante,
oltre che “leggero”,
scoprire, attraverso le immagini, le parole,
i pensieri del giovane Ernesto e dell’amico
Alberto, come anche una figura focale del
secolo passato abbia passato i momenti che,
in un esperienza simile, avremmo passato
tutti, dalle cadute in moto, ai malanni,
alla fame, al dispiacere per la ragazza
persa e all’entusiasmo per quelle
incontrate, dalla paura per un marito geloso
al coraggio di affrontare in un modo nuovo
una malattia terribile, fino alla rabbia
per la condizione dei nativi e della povera
gente sparsa in ogni dove in questo continente
così vivo, e così pieno di
contraddizioni (temi che, a distanza di
cinquant’anni, restano staordinariamente
attuali – si veda la condizione dell’Argentina,
per esempio, ancora in balia della crisi
di qualche anno fa, o delle realtà
sociali brasiliane, già “toccate”
da Salles con il suo “Central do Brasil”-
).
Attraverso gli straordinari paesaggi offerti
dalla generosa America Latina, Salles dipinge,
sulla base degli stessi diari di Guevara
e Granado, un ritratto dei due amici così
semplice e vero da farli sembrare fin troppo
vicini a noi, anche ora, e quasi da tentare
di suggerire, all’orecchio dell’Ernesto
infine di ritorno in patria, piano, di stare
attento, perché un tragico destino
è in agguato per lui, anche se, credo,
poco il “Fuser”avrebbe
ascoltato di qualsiasi suggerimento, animato
dallo spirito che, quindici anni dopo gli
eventi raccontati nel film, l’avrebbe
allontanato addirittura dalla sua famiglia
per combattere per tutto quello in cui credeva.
Non siamo di fronte, certo, a un capolavoro,
né al miglior film dell’appena
trascorsa rassegna di Cannes, eppure c’è
qualcosa, nel lavoro di Salles, che passa
dai colori, alle idee, ai sentimenti, agli
occhi straordinariamente espressivi di Ernesto
(un sempre più bravo Gael Garcia)
e Alberto (l’ottimo De La Serna),
fino all’ultima inquadratura del vero
Granado, che pare vedere ancora di fronte
a lui l’amico e compagno di viaggio
di cinquant’anni fa, con il sorriso
e la voglia d’avventura di allora.
Ho avuto la fortuna di incontrare, seppur
con diverse decine di persone, lo stesso
Granado, poco dopo l’uscita del film
nelle sale, e quello che ho sentito, è
stata una sorta di “vicinanza”
alla Storia che ancora non riesco a spiegarmi,
la sensazione di essere sfiorati da qualcosa
di indescrivibile, un uomo che ha attraversato
un secolo e che, malgrado la sicuramente
maggiore fama e popolarità del suo
illustre compagno, ha cambiato il destino
di un numero altrettanto grande di vite
attraverso decennali ricerche mediche sempre
volte a un maggiore benessere di tutte quelle
persone che, a causa di limitazioni economiche,
non possono aspirare ad avere le stesse
cure dei “ricchi”, a
Cuba, dove tutt’ora risiede, come
in tutto il Sud America.
Nonostante tutto questo, tornando al discorso
sui “miti”, non ho avvertito
alcun tono di “superiorità”
nella voce roca del vecchio Alberto, così
come nei suoi racconti, dove più
che le gesta o le ideologie rivoluzionarie,
aleggiavano semplicità e dolcezza,
condite da quell’ironia che, in questa
pellicola, è resa così bene
da fare quasi impressione.
Al di là dei singoli episodi della
storia, che certo presenta diverse lacune,
qualche ingenuità e un pizzico di
retorica di troppo, quello che esce da questo
lavoro è una sorta di “versione
moderna” –con le dovute “precauzioni”
- di quello che furono, per le passate generazioni
e il western, Butch Cassidy e Sundance Kid
(non per nulla il produttore esecutivo della
pellicola è lo stesso Robert Redford),
che più che fuorilegge erano guasconi,
più che eroi da romanzo uomini smarriti:
Ernesto detto “Fuser” e Alberto
non hanno ancora trovato la loro strada,
e non si parla, qui, di strade perdute,
ma in loro vi è lo stesso spirito
pieno di passione che, da sempre, anima
l’uomo e che, da sempre, spinge ognuno
di noi, nel suo piccolo, a cercare una dimensione
che porti la nostra vita al più pieno
significato possibile.
Mi piace, quando guardo un film, pensare
di poterlo associare a un particolare periodo
dell’anno, in modo da “ottimizzare”
la pellicola in tutti gli aspetti, sfiorando
quasi la maniacalità (non potrei
mai guardare un film ambientato il 2 febbraio
– Harold Ramis e il suo giorno della
marmotta insegnano – in agosto), e
non è facile collocare una storia
che si dirama in paesaggi così diversi,
ugualmente splendidi e terribili, che tocca
città, villaggi, più di diecimila
chilometri e almeno quattro Stati, ma penso
che, se potessi scegliere, deciderei di
rivederlo in primavera, quando i fiori ancora
non sono sbocciati, e dentro di sé
si ha l’impressione di poter fare
tutto, spinti da un energia presente –
nella natura e, di conseguenza, in noi –
solo in quello stesso periodo, quando ci
si sente capaci di cambiare le cose attorno,
e si avverte, da loro, provenire quasi lo
stesso sentimento, pur se indefinito e,
spesso, confuso come un età che non
ha certezze, ma solo aspirazioni. Salles
ha passato quest’età, ma forse,
aiutato anche dai giovani attori, coglie
nel segno tratteggiando, con mano leggera,
pur se decisa (quasi fosse l’Alberto
Granado della sua stessa storia), un racconto
che non mira in alto, ma guarda attorno
a dove camminano – o guidano, corrono,
arrancano – i due amici, il vero volto
del Continente.
Chiudo con un appunto sempre legato a questo:
nel corso del brindisi per la sua festa
di compleanno, il quattordici giugno, nel
lebbrosario di San Paolo, in Perù,
Ernesto, cambiato nel profondo, come lui
stesso scriverà, da questo incredibile
viaggio, ringrazia il personale, i malati,
i colleghi per l’accoglienza riservata
a lui e Alberto, definendo come “un
territorio meticcio ma profondamente unito,
al di là delle separazioni date da
inesistenti confini”, una “Maiuscola
America” che fa sospirare, innamorare,
pensare, maturare.
Non credo che noi, italiani figli di un
epoca – e di fortune – ben diverse
da quelle di Ernesto, potremo mai capire
nel profondo cosa il ragazzo provò
durante quei mesi, ma, in un certo senso,
è giusto così. Ognuno ha la
sua strada, e le sue battaglie da combattere,
grandi o piccole che siano.
Ernesto e Alberto l’hanno dimostrato,
e, credo, anche la “Maiuscola America”.
Con tutto il rispetto per lo straordinario
operato di Moore – vincitore “esagerato”,
a mio parere, nella stessa edizione di Cannes
– basterebbe (o sarebbe bastata?)
questa semplice frase per capire meglio
il senso (o meglio: il non-senso) di quello
che sta accadendo in questi ultimi anni,
negli Stati Uniti e non: la “Maiuscola”
e più vera America pare vivere tutta
negli occhi dei dimenticati nativi che la
resero, forse, più bella di quanto
ora, e in futuro, non potrà mai essere.
Continua
|
|
|