La Trama
Il ventennio da protagonista, fra grandi
imprese e mirabolanti cadute, del magnate
americano Howard Hughes (L. DiCaprio), giunto
giovanissimo a Hollywood come regista e
produttore grazie ai soldi ereditati dalla
fortuna del padre, inventore di una rivoluzionaria
trivella per l’estrazione del petrolio:
dal 1926, - anno dell’inizio della
lavorazione alla pellicola “Gli angeli
dell’inferno”, prima delle sue
due fatiche da filmmaker - che sancì
l’inizio del sodalizio lavorativo
con i fedelissimi Noah Dietrich (J. Reilly)
– contabile -, Glenn Odekirk (M. Ross)
– ingegnere – e il Professor
Fitz (I. Holm) – meteorologo –
fino al 1947, con il successo al processo
contro lo stesso Hughes intentato dalla
Commissione per l’aviazione degli
Stati Uniti e il collaudo del famigerato
Hercules, velivolo titanico cui il milionario
dedicò gran parte delle sue finanze
e progetti.
A cavallo delle due date, confronti, relazioni
pubbliche e private, grandi imprese costellarono
la vita al massimo di Hughes: relazioni
più o meno effimere con le dive più
ambite del momento, da Jean Harlowe (G.
Stephani) fino a Katherine Hepburn (C. Blanchett)
e Ava Gardner (K. Beckinsale), frequentazioni
di stelle come Erroll Flynn (J. Law), l’acquisizione
della compagnia aerea civile TWA giunta
dopo aver centrato il record di velocità
in volo nel 1935 e aver doppiato il precedente
in un giro intorno al mondo da New York
a New York nel 1937, la battaglia per “l’allargamento”
dei cieli contro la Pan Am di Juan Trippe
(A. Baldwin) e le pressioni del senatore
Brewster (A. Alda), incidenti quasi mortali
e continue innovazioni tecniche alla base
dell’aviazione civile e militare moderna.
E dietro le luci di macchine fotografiche
e riflettori, l’immagine di un bambino
perduto, di un uomo solo e inaccessibile,
incattivito e schivo, dalle pulsioni fobiche
e maniacali legate ad un atavico terrore
per i germi.
Sogni ed incubi di un uomo la cui mente
volò sempre un passo oltre quello
che il corpo – e il cuore –
potevano sopportare, come un aeroplano lanciato
a una velocità tale da far saltare
il contagiri anche quando il carburante
è finito.
Una biopic che parla delle imprese di un
aviatore, ma soprattutto, di una persona
che credette ai propri sogni anche quando
parevano troppo grandi perfino per le sue
pur immense risorse: un “Citizen Kane”
realmente esistito, per il “Quarto
potere” personale di Martin Scorsese.
Un film per il cinema, ma oltre ogni cosa,
un film sul cinema.
Commento
Martin Scorsese è uno dei grandi
perdenti del cinema. Nonostante i riconoscimenti
in tutto il mondo, i successi di pubblico
e critica, l’investitura a “miglior
regista vivente” che spesso ricorre
in ogni articolo che riporti la sua filmografia,
in patria, e agli occhi dell’elite,
non è considerato quanto, probabilmente,
la sua storia e le sue opere vorrebbero.
Per nostra fortuna.
Probabilmente, se il successo fosse arriso
maggiormente al regista italo-americano,
infatti, la sua passione per i personaggi,
come lui, “eterni secondi”,
non si sarebbe sviluppata in modo così
dirompente: Charlie in Mean Streets (Mean
Streets, Martin Scorsese, 1973), Travis
in Taxi Driver (Taxi Driver, Martin Scorsese,
1976), Frank in Al di là della vita
(Bringin out the dead, Martin Scorsese,
1999), Jake LaMotta in Toro Scatenato (Raging
Bull, Martin Scorsese, 1980), Eddie Felson
ne Il colore dei soldi (The colour of the
money, Martin Scorsese, 1986), così
come Amsterdam in Gangs of New York (Gangs
of New York, Martin Scorsese, 2002), sono
tutti grandi perdenti, più o meno
meritevoli del loro Destino, meschini o
nobili, principalmente soli, anche quando
amati. A loro ora si aggiunge il magnate
americano Howard Hughes, primo vero simbolo
della filosofia tutta a stelle e strisce
del “larger than life”. Personaggio
controverso, giovane miliardario lanciatosi
prima in imprese produttive allora quasi
impensabili per Hollywood, per poi dedicarsi
principalmente alla sua vera, grande, passione:
l’aviazione, prima praticata e poi
offerta alla patria e al grande pubblico.
Da molti considerato – sicuramente,
in parte, a ragione – un disturbato
megalomane e un sostenitore della destra
storica statunitense nei primi anni del
maccartismo, da altri idolatrato come un
modello di determinazione e forza di volontà.
Un uomo in parte sicuramente meschino, eppure
alla base di molte delle innovazioni che
oggi ci permettono di volare, guardare la
televisione in diretta mondiale, essere
trasportati attraverso i corridoi di un
ospedale con un letto mobile. I detrattori
diranno che tutte le invenzioni che Hughes
stimolò o sviluppò in prima
persona sarebbero state, prima o poi, introdotte
da altri: ma, come recita, a buon dire,
questa volta, la locandina italiana, “alcuni
uomini sognano il futuro, lui lo ha costruito”.
Ci vuole coraggio anche per essere “cattivi”,
così come – e Welles lo dimostrò
citando Hughes nel suo “Verità
e menzogne” (F for Fake, Orson Welles,
1973) – per essere perdenti.
E il multimiliardario, a capo del suo impero,
rinchiuso in una suite d’hotel a Las
Vegas dai vetri oscurati, solo con la sua
malattia, certamente lo è stato.
Il cuore e l’anima dell’opera
più recente di Scorsese, però,
non sta nella vita e nelle imprese di Hughes,
o perlomeno non direttamente: il grande
merito di questo splendido film, infatti,
non sta nella tecnica sopraffina, o nella
materia di base scelta per il racconto,
quanto nella valenza assunta dal tutto proprio
grazie all’apporto fondamentale del
regista, che trasforma il suo “antieroe”
in una versione alternativa di se stesso
e del cineasta in generale, così
come Welles aveva raccontato nel suo fulminante
esordio Quarto Potere (Citizen Kane, Orson
Welles, 1946). Il magnate del petrolio,
del cinema e dell’aviazione, esploratore
e pioniere, psicotico e coraggioso –
perlomeno negli affari -, diviene, negli
eccessi della sua malattia, una sorta di
sciamano in bilico tra passato e futuro,
i ricordi dell’infanzia protetta dalla
madre e le visioni del prossimo isolamento,
kleenex alla mano in difesa dei batteri,
simbolo della grandezza e dei sogni che
solo il cinema può regalare, e sintomo
della meraviglia che il bambino perde lungo
le strade della vita, e che probabilmente
è conservata grazie alle imprese
possibili solo – o quasi – sul
grande schermo. Un inno alla meraviglia
oltre la macchina da presa, quello stupore
che fu la “rosebud” di Kane
e, in questo caso, è il “futuro”
di Howard Hughes.
L’associazione con il volo, i Brewster
e i Trippe che tanto paiono avere in comune
con gli stessi produttori e “grandi
giudici” (magari dell’Academy),
il processo – ricordiamo che Scorsese
fu indagato, dopo aver realizzato Taxi Driver,
dall’FBI come una sorta di sobillatore
di masse – e la realizzazione puramente
simbolica dell’opera cui Hughes ha
dedicato più fondi ed energie paiono
essere perfettamente in sintonia con il
viaggio del regista nel complesso mondo
della “fabbrica dei sogni” nata
poco più di un secolo fa –
quasi in contemporanea con i primi voli,
pare una combinazione scelta dal Destino
– e già alla ribalta come le
più “vecchie”delle sue
sorelle storiche.
Nel suo momento peggiore, quando, con l’aereo
precipitato in fiamme, Howard Hughes viene
soccorso tempestivamente – e forse
salvato -, pronuncia una frase fondamentale,
prima di cadere privo di sensi schiacciato
da una ribalta fatta di luci, flash e macchine
da presa: “Sono Howard Hughes, l’aviatore.”
Altro non poteva essere, in quello che credeva
fosse il suo punto di morte.
Anche Scorsese, a suo modo, è un
aviatore. E raramente, in tutta onestà,
ci aveva portati così in alto. Speriamo
con tutto il cuore che il viaggio continui
a questa quota.
Si sa che oltre le nuvole – Hughes
insegna – si acquista velocità
evitando ogni perturbazione.
Continua
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